di Filippo Gherardi
Correva l’anno 2002 ed opinione pubblica, addetti ai lavori e qualche instancabile amante del concetto assoluto, e puro, di “competizione sportiva” storceva il naso davanti al sorpasso subito da Barrichello, proprio all’ultimo giro del Gran Premio d’Austria, a favore del compagno di squadra Michael Schumacher. Schumi vinse così la cinquantottesima gara della sua strepitosa carriera, in una stagione in cui il tedesco si sarebbe laureato campione del mondo indossando gli abiti del cannibale dalla prima all’ultima curva. Ma quel giorno, sul podio del circuito di Zeltweg, tra i cori pro Barrichello che provenivano dagli spalti e le lacrime di quest’ultimo scippato di un successo meritato, l’immagine del campione plurititolato, capace di riportare la Ferrari ai fasti di un tempo, uscì sbiadita e criticata. Ordini di scuderia. Questo quello che successe, questo il concetto con cui la nuova generazione (la mia) di appassionati di Formula 1 fece ufficialmente conoscenza. Poco importò se poi, di lì a sei mesi sul circuito di Indianapolis, nella penultima gara della stagione e quando il mondiale era già bello che in cassaforte, Schumacher restituì il torto subito allo stesso Barichello lasciandogli, a ridosso della linea d’arrivo, una vittoria che solo in parte, in minima parte, lo ripagò dello smacco di Zeltweg. Oggi, a più di undici anni di distanza, ci ritroviamo a dover commentare l’atteggiamento sempre di un tedesco con inclinazioni da dominatore, Vettel, nei confronti di un compagno di squadra, Webber, bravo, veloce, ma anche sacrificato e soffocato dal talento dell’altro. Il problema è che, almeno questa volta, la scuderia di appartenenza, la Red Bull, aveva scelto di premiare il secondo ordinando, altresì, al primo di mantenere la posizione e di non correre possibili ed inutili rischi. Ma si sa, cambiando gli addendi non sempre il risultato finale è lo stesso. Ed allora, se chi è costretto a rallentare è un tedesco con stoffa e Dna del vincitore, anziché un mite australiano o, meglio ancora, un giocoso brasiliano, strategie e disposizioni saltano e di brutto. Vettel ha battagliato con Webber come se fosse un Alonso qualsiasi, vincendo la gara e dando a tutti, vertici Red Bull compresi, un messaggio chiaro e deciso: Ordini di scuderia? No grazie! Vittoria scippata a Webber o dimostrazione di sano agonismo? Lo stesso Vettel, a distanza di poche ore dall’accaduto, ha recitato un suo personalissimo mea culpa, ma “quelli di Zeltweg”, forse, la penserebbero in modo diverso.